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Tradizioni – feste – identità

 

Introduzione di Ignazio E. Buttitta al libro “la forza dei simboli, studi sulla religiosità popolare” a cura di Ignazio E. Buttitta e Rosario Perricone – Folkstudio, Palermo, 2000

 

Oggi, dopo averle rinnegate come retaggio di tempi oscuri, come residui del passato (un passato che è stato realmente per i più di privazione e fatica, di soprusi e attese disilluse), si fa un gran parlare di tradizioni popolari e insieme di identità e di memoria. Spesso, però, dietro l’apparente interesse per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale, tradizionale si celano interessi confliggenti e contraddittori. Valorizzare le tradizioni significa per alcuni, per i più, quando non distorti da etnicismi nazionalistici, coglierne ed esaltarne solo quegli aspetti che paiono utili alla promozione di una mediocre politica turistico – consumistica. Una politica il cui fine ultimo e inespresso è la creazione di “riserve indiane”, dove stanchi attori dovrebbero trovarsi a recitare la parte dei commossi fedeli, degli operosi artigiani, dei pii contadini e quant’altro, a profitto del turista di passaggio felice di “stupirsi” di usi e costumi “antichi” e “selvaggi”. Esecutori non sempre consapevoli di tale “condanna alla stereotipo” sono Pro-Loco, Enti locali, istituzioni pubbliche e associazioni private.

A soffrire maggiormente di questi interventi sono le feste religiose. Esse, al contrario di altre espressioni della cultura popolare inesorabilmente scomparse, restano ancora vive e presenti. In effetti rispetto alle trasformazioni sociali e culturali prodotte dai fatti realizzatisi in questi ultimi anni nelle aree di cultura tradizionale, le feste religiose sono quelle che hanno mostrato le maggiori resistenze. Spesso addirittura abbiamo assistito a riprese e amplificazioni. Sono ragioni precise quelle che ne garantiscono il perdurare e il rinnovarsi. Alla forza iterattiva delle strutture formali dei riti, alla radicata tendenza da parte delle società a conservare e tramandare quanto si dimostri di provata efficacia, all’intenso bisogno di sacro nell’inesauribile ricerca di senso alla propria esistenza, si aggiunge, oggi più di ieri, la precisa volontà delle singole comunità di riconoscersi e affermarsi attraverso la propria cultura. La ragione della permanenza di tratti culturali arcaici è quindi anche da ricercare nel desiderio di confermare la propria specificità e con essa il senso stesso del proprio esserci minacciato da rapide quanto traumatiche trasformazioni.

La festa continua a rispondere a questa esigenza. E’ attraverso essa che si riproduce e riafferma l’identità, tanto individuale quanto collettiva, nella ricapitolazione dei valori sociali e ideologici della propria cultura. E’ attraverso il discorso esplicitato dei simboli rituali cioè che vengono rimesse in discussione, per essere periodicamente riconfermate, le categorie attraverso le quali gli uomini percepiscono la realtà, i fondamenti che governano l’ordine naturale e sociale.

Gli uomini, nel ripetere gesti e parole simili anno dopo anno, cercano la certezza di un’appartenenza, le stesse ragioni fondanti dell’esserci, e, insieme a questo, chiedono risposte positive a problemi irresolubili nella prassi, efficaci argini alle ansie e ai drammi del quotidiano. Le feste nel ricorso ai santi e nella iterazione della loro struttura offrono garanzie forti all’individuo e alla comunità e continuano a rispondere alle inquietudini, ai dilemmi fondamentali dell’esistere non soddisfatti dalla società contemporanea.

Ogni discorso sull’identità non può dunque prescindere da una riflessione sulla festa e più in generale sulle forme della religiosità tradizionale, E’ grazie alla presenza del santo, resa annualmente visibile attraverso l’iter professionale, che viene riconfermata la persistenza della comunità e riproposta la peculiare visione sacrale del proprio territorio e del proprio calendario. Se è evidente quanto il sentimento di appartenenza ribadito annualmente nelle feste contribuisca a definire e sostenere il senso stesso delle nostre esistenze, il nostro “essere nel mondo”, è altrettanto chiaro che il processo di impoverimento e omologazione delle feste produce alienazioni d’ogni sorta.

Oggi più di ieri è osservabile nel concreto il continuo adeguamento delle forme, dei tempi e degli spazi dei riti festivi al rapido mutare delle proposte e delle istanze formulate in sedi del tutto estranee alla cultura cui essi appartengono. Un adeguamento non privo di stridenti contraddizioni che rendono manifeste le conflittualità culturali e sociali, le tensioni tra memoria e contingenza. Allo stravolgimento delle feste contribuiscono, oltre alle politiche di sviluppo turistico sostenute dagli enti locali, anche altri fattori di disturbo. Tra questi principalmente la crescente pressione dei mezzi di comunicazione di massa e i continui interventi normalizzatori della Chiesa. Risultato ineluttabile di tale processo sembra essere l’appiattimento di un ricco e variegato universo su standard di fruizione che privilegiano della festa gli aspetti ludici e spettacolari, folkloristici, esitando nell’introduzione anche forzata di elementi nuovi ed estranei al fine di esaudire e incoraggiare le domande del mercato turistico. La speranza che sorregge tali interventi è quella, in teoria legittima e apprezzabile, di rilanciare l’economia locale stimolando i flussi turistici. Questa politica, raramente sostenuta da una sia pur minima sensibilità antropologica, come è facilmente comprensibile, non favorisce affatto lo sviluppo. Episodici e assai limitati nel tempo gli afflussi di visitatori non comportano l’incremento economico sperato. D’altro canto la progressiva standardizzazione delle feste non sollecita l’eventuale turista a recarsi in un posto piuttosto che in un altro. In ogni caso “su questa strada le feste tradizionali rischiano di smarrire il senso originario che ne faceva una tessera fondamentale nel mosaico della cultura attraverso cui ciascuna comunità, celebrando annualmente i propri santi manifestava la speranza di continuare a persistere nel e oltre il tempo”.

Date queste premesse sembra pertanto lecito domandarsi quale futuro sia riservato alle feste tradizionali e più in generale a tutte le espressioni della religiosità folklorica, quali siano le specifiche strategie che le comunità possono adottare per resistere alle trasformazioni indotte dall’esterno (un esterno almeno ideologicamente assai lontano), per impedire o rallentare l'inesorabile processo di omologazione salvaguardandone le specificità. L'interrogativo ultimo e drammatico che si pone (o dovrebbe porsi) agli studiosi di scienze sociali (e non solo agli studiosi) è: cosa resterebbe, qualora tale processo dovesse finire con l'affermarsi definitivamente, a segnalare verso se stessi e verso l'esterno la propria identità? Quando io dico di essere di un determinato luogo infatti non solo indico e rivendico una appartenenza spaziale, ma rinvio più o meno esplicitamente a un insieme di pratiche, comportamenti, credenze, valori propri della comunità da cui provengo.

Il compito degli studiosi di scienze sociali, dei ricercatori, può limitarsi ad essere quello di registrare fatti (fornendone se si vuole classificazioni e interpretazioni) per consegnarli a futura memoria? Siamo ineluttabilmente destinati a compilare micro-storie e a coltivare interessi forse troppo eufemisticamente definibili come neo antiquari? Gli uomini di cultura, accademici e non, sempre così pronti ad assumere mode, indicazioni e stimoli dai centri del potere contribuendo d'altra parte alla legittimazione delle politiche istituzionali, dovrebbero fornire risposte concrete alle istanze implicitamente o esplicitamente avanzate dall'”oggetto” delle loro ricerche. Spesso nel corso delle mie ricerche sul campo mi è stato chiesto di parlare col sindaco affinchè la smettessero di promuovere e sostenere iniziative divergenti dalla volontà dei fedeli. Cosa produrrebbe un documento ufficiale e autorevole che stigmatizzasse come distruttivo delle stesse realtà cerimoniali tradizionali, l'attuale fiorire di sagre e messe in scena “storiche”, di palii e concorsi e il susseguirsi di contributi finanziari e sostegno organizzativi? Forse non sarebbe in alcun modo risolutivo ma certo produrrebbe lo sviluppo di un ampio dibattito chiarificatore.

Queste questioni ci sospingono a porci alcuni altri ineludibili interrogativi: quando resisteranno i balli dei santi, le processioni dell'alloro, i falò rituali, i canti processionali, le ossessive acclamazioni, etc.? Cosa diverremo noi, noi siciliani intendo, noi abitanti di Prizzi, San Marco, Tortorici, Sortini, Scicli, Pietraperzia, Troina, Cerami, etc., senza le “nostre” feste, senza i “nostri” santi? Ha senso oggi occuparsi di tali problemi e prestare attenzione a fenomeni che al di là della loro apparente ineluttabilità possono addirittura qualificarsi di segno positivo?

Non troviamo di meglio per accennare una risposta, ricordare quando ha recentemente rilevato Mario Alcaro: “Non ci è indifferente – e non potrà mai esserlo – la contrada dove siamo stati gettati. Il nostro Io si forma e si struttura grazie ad abitudini che si acquisiscono sulla base dell'ethos, cioè del sistema dei valori e dei modelli di comportamento della comunità dove ci è toccato nascere. Proprio per questo è salutare reagire ai processi di omologazione, di standardizzazione, di omogeneizzazione, che accompagnano la globalizzazione del mondo, contrapponendo ad essi la rivitalizzazione delle culture locali, la riscoperta e la reinvenzione delle “radici storiche comuni”, la riaffermazione delle proprie identità collettive”. Alcaro è ben consapevole che rispetto a tali tradizioni non bisogna “assumere l'atteggiamento folcloristico della salvaguardia del pittoresco”, e che non “occorre conservare, come in un museo, sopravvivenze arcaiche, né ancora che bisogna preservarle da contaminazioni moderniste”. Piuttosto, ciò che appare necessario è lasciare le tradizioni “alle loro dinamiche naturali, alle interazioni con il mondo della vita odierna, agli incroci spontanei con gli eventi e i processi del presente”. Ciò che va assolutamente evitato è infine “che tali dinamiche siano stravolte con l'introduzione forzata di modelli altri, con l'imposizione di standard che sradicano e annientano le identità, con categorie e norme tratte da contesti culturali estranei”.

 

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